Trivelle, tutte le bugie del no al referendum
Smontato punto per punto lo spot che invita all’astensionismo il 17 aprile. Perché questa battaglia non è ideologica ma concreta.
Sarebbe sufficiente mettere a confronto la composizione del Comitato per il No con la vasta alleanza di associazioni, comitati, amministrazioni e tanti altri soggetti che hanno costituito il comitato Vota Si per fermare le trivelle per capire da che parte sta l’interesse del Paese che non può prescindere da un modello energetico pulito, rinnovabile, distribuito e democratico.
Spesso, da parte del fronte del No al referendum, si è fatto riferimento all’inutilità e all’ideologia che si nasconderebbe, a detta loro, dietro il quesito referendario, che, ricordiamolo, riguarda tutti i titoli abilitativi all’estrazione e/o alla ricerca di idrocarburi già rilasciati entro le 12 miglia marine, e interviene sulla loro data di scadenza.
Ma non si ricorda che il referendum serve a cancellare, e lo faranno i cittadini visto che il governo si è sempre distinto per una politica in favore delle fossili, un inammissibile regalo fatto alle compagnie petrolifere che oggi possono estrarre petrolio e gas entro le dodici miglia nei nostri mari, senza alcun limite di tempo. Mettere una scadenza alle concessioni date a società private, che svolgono la loro attività sfruttando beni appartenenti allo stato, dovrebbe essere previsto dalla legge. Nel nostro Paese però la politica pro trivelle messa in campo dal governo ha reso necessario una consultazione referendaria per ristabilire questo diritto.
Importante inoltre sottolineare che il percorso referendario è tutt’altro che ideologico e si è già contraddistinto per aver portato a casa risultati concreti molto importanti. In particolare con la legge di stabilità 2016 il governo è stato costretto a fare dietrofront su tre aspetti molto rilevanti:
- le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese non sono più strategiche (lo erano diventate con l’approvazione dello Sblocca Italia a fine 2014);
- ha ridato voce ai territori, riportando le decisioni per le attività a terra in capo alle Regioni e agli enti locali (sempre lo Sblocca Italia aveva avocato tutte le decisioni allo Stato centrale);
- infine ha finalmente reso operativo il divieto a nuove attività entro le dodici miglia nel mare italiano. Un divieto previsto già dal Dlgs 128/2010 ma che i governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno sempre provveduto a smontare.
Rimane ora da definire l’aspetto della durata delle concessioni, come ricordato dalla Corte di Cassazione prima e Costituzionale dopo. E per questo serve il voto del 17 aprile.
Per andare a votare occorre però arrivarci con tutte le informazioni necessarie e soprattutto corrette. Proprio a partire dalla disinformazione che viaggia attraverso gli spot per l’astensionismo è utile ribadire alcune questioni, rispondendo per punti alle loro affermazioni.
1 – NON È UN VOTO CONTRO NUOVE TRIVELLE: FALSO
Non è vero che le nuove attività sono vietate dal 2006 (la legge è il 152/2006, ma è stata modificata nel dicembre 2015). Il divieto entro le dodici miglia è stato posto per la prima volta da un decreto del 2010 (Dlgs 128/2010) e non nel 2006, poi rimosso dal decreto sviluppo (cosiddetto decreto Passera) nel giugno 2012 (in particolare a rivedere il vincolo è l’articolo 35), quindi reso vigente e attuato (per le nuove attività e le richieste in corso) solo con la modifica alla legge di stabilità 2016). Il divieto è quindi vigente dal 1 gennaio 2016 a tutti gli effetti e solo grazie alla pressione del movimento referendario. Inoltre nuove trivellazioni sono possibili. Attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che a partire dalle concessioni già rilasciate siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi. Tra i titoli abilitativi che oggi possono godere di una durata a tempo indeterminato ci sono infatti anche diversi permessi di ricerca, alcuni dei quali già in fase esplorativa e in attesa di trasformarsi in vere e proprie concessioni di coltivazione del giacimento (uno su tutti Ombrina mare di fronte la costa abruzzese). Un esempio concreto è dato dal caso di VegaB, la nuova piattaforma prevista nel canale di Sicilia, nell’ambito di una concessione già esistente (dove già opera la piattaforma VegaA) e posta meno di 12 miglia da un’area protetta. Tale piattaforma, se vince il NO molto probabilmente sarà realizzata, proprio per arrivare a fine vita del giacimento. Se vince il Si invece il titolo andrebbe a scadenza nel 2022, e quindi non ci saranno i tempi per realizzare il nuovo impianto. Una vittoria del SI in Sicilia avrebbe quindi un notevole risultato.
2 – LE PIATTAFORME SONO UN’ECCELLENZA DI TECNOLOGIA, SICUREZZA E NON HANNO IMPATTI SUL MARE E SULL’AMBIENTE – FALSO
Le piattaforme sono delle attività industriali a tutti gli effetti con tutti gli impatti e i rischi connessi. Non si può parlare di attività a impatto zero. Oltre il rischio di incidenti (falso dire che è impossibile visti anche i diversi casi in giro per il mondo, vedi articolo), ci sono poi gli impatti nelle attività di routine. Le attività di ricerca e di estrazione di idrocarburi possono avere un impatto rilevante sull’ecosistema marino e costiero. L’attività stessa delle piattaforme (a prescindere che siano di gas o petrolio) possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema marino, come olii, greggio (nel caso di estrazione di petrolio), metalli pesanti o altre sostanze contaminanti (anche nel caso di estrazione di gas), con gravi conseguenze sull’ambiente circostante. Anche la ricerca del gas e del petrolio, che utilizza la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa), incide in particolar modo sulla fauna marina e su attività produttive come la pesca che potrebbe registrare una diminuzione del pescato fino al 50%. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili. In particolare è importante sottolineare come secondo il Piano di pronto intervento nazionale per la difesa da inquinamenti di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini di Ispra, le varie tecniche di rimozione delle sostanze sversate consentirebbero di recuperare al massimo non più del 30% del totale. Infine da non sottovalutare, nella zona dell’Alto Adriatico è il fenomeno della subsidenza. L’estrazione di gas sotto costa, anche se non è l’unica causa di tale fenomeno, resta il principale fenomeno antropico che causa la perdita di volume del sedimento nel sottosuolo generando un abbassamento della superfice topografica. La subsidenza aumenta inoltre l’impatto delle mareggiate e delle piene fluviali, favorendo l’erosione costiera, con perdita di spiaggia ed effetto negativo sulle attività turistiche rivierasche.
3 – CHIUDERE LE PIATTAFORME VUOL DIRE MAGGIORI IMPORTAZIONI DA RUSSIA E PAESI ARABI E MAGGIORE TRAFFICO DI NAVI PETROLIERE E GASIERE – FALSO
Il contributo delle attività entro le dodici miglia, pari al 3% dei nostri consumi di gas e meno dell’1% di petrolio, risultano alquanto inutili ai nostri fini energetici. Un contributo che è abbondantemente compensato dal calo dei consumi in atto da diversi anni (- 22% di gas e -33% di petrolio negli ultimi 10 anni. Se poi entriamo nel dettaglio della produzione nazionale scopriamo che non solo i consumi di gas in questi ultimi 10 anni sono diminuiti, ma anche la produzione nazionale si è ridotta del 43%. È un settore che negli ultimi decenni ha molto ridotto la sua attività ( VEDI mappa ). Difficilmente chiudendo queste attività, che comunque arriverebbero al termine previsto dalla concessione come prevedeva la normativa fino a fine 2015, ci sarà un incremento di traffico di navi per il trasporto di idrocarburi. Importante sottolineare inoltre come questa affermazione sia poco fondata, dal momento che già oggi il gas venga trasportato (importato o esportato) prevalentemente attraverso i tubi dei gasdotti e non via mare e che già oggi il petrolio estratto dalle piattaforme (presenti prevalentemente entro le dodici miglia marine) viene trasportato a terra tramite oleodotti e da qui il più delle volte caricato sulle petroliere per essere trasportato agli impianti di raffinazione e trattamento. Tutto questo traffico sarebbe eliminato.
4 – IL 65% DEL GAS VIENE DALLE PIATTAFORME IN MARE, NON È VERO CHE PARLIAMO DI “POCA COSA” – FALSO
Le piattaforme soggette a referendum (entro le dodici miglia) oggi producono il 27% del totale del gas e il 9% di greggio estratti in Italia. La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di Smc (Standar metri cubi) di gas. I consumi di petrolio in Italia nel 2014 sono stati di circa 57,3 milioni di tep (ovvero milioni di tonnellate) e quindi l’incidenza della produzione delle piattaforme a mare entro le 12 miglia è stata di meno dell’1% rispetto al fabbisogno nazionale (0,95%). Per il gas i consumi nel 2014 sono stati di 50,7 milioni di tep corrispondenti a 62 miliardi di Smc; l’incidenza della produzione di gas dalle piattaforme entro le 12 miglia è stata del 3% del fabbisogno nazionale. Un contributo da subito compensato dal calo dei consumi e dallo sviluppo delle fonti rinnovabili. (VEDIAPPROFONDIMENTO). Anche la fase di transizione, tanto utilizzata da chi difende le piattaforme di estrazione di gas, potrebbe essere già oggi compensata dall’utilizzo di biometano. Infatti già oggi si produce elettricità in Italia con impianti a biogas che garantiscono il 7% dei consumi. Ma il potenziale per il biometano, ottenuto come upgrading del biogas e che può essere immesso nella rete Snam per sostituire nei diversi usi il gas tradizionale, è in Italia di oltre 8miliardi di metri cubi. Ossia il 13% del fabbisogno nazionale e oltre quattro volte la quantità di gas estratta nelle piattaforme entro le 12 miglia oggetto del referendum.
5 – LE FONTI RINNOVABILI SONO BELLE, MA COSTANO IN BOLLETTA E OGGI NON SONO UNA REALTÀ – FALSO
Le rinnovabili non sono solo belle, ma hanno permesso di ridurre drasticamente il prezzo dell’energia elettrica portando concorrenza nel mercato. Il 40% di energia prodotta ha fatto crollare il prezzo come mai al mercato dell’energia e dovremmo ringraziarle per questo. Oggi il solare potrebbe andare avanti anche senza incentivi (che in Germania ci saranno fino al 2024) basterebbe aprire all’autoproduzione e alla distribuzione locale da FER, che però in Italia è tassata e vietata. Inoltre le rinnovabili oggi sono sempre più efficienti, mature e rappresentano la prima voce di investimento nel mondo. Non solo il solare ha ridotto il costo ad un decimo di dieci anni fa ma nei prossimi anni è previsto che si ridurrà ancora, insieme a quello delle batterie. Se non fosse matura e affidabile, perchè Enel sta investendo sul solare in tutto il mondo? Chi guarda da un altra parte condanna il proprio Paese. Alcuni numeri: Negli ultimi dieci anni le fonti rinnovabili hanno contribuito a cambiare il sistema energetico italiano. Complessivamente coprono il 40% dei consumi elettrici complessivi (nel 2005 si era al 15,4) e il 16% dei consumi energetici finali (quando nel 2005 eravamo al 5,3%). Oggi l’Italia è il primo Paese al mondo per incidenza del solare rispetto ai consumi elettrici (ad Aprile 2015 oltre l’11%), e si è sfatata così la convinzione che queste fonti avrebbero sempre e comunque avuto un ruolo marginale nel sistema energetico italiano e che un loro eccessivo sviluppo avrebbe creato rilevantissimi problemi di gestione della rete. A impressionare sono da un lato i numeri della produzione da fonti rinnovabili passata in tre anni da 84,8 a 118 TWh, e dall’altro quelli di distribuzione degli impianti da fonti rinnovabili: circa 800mila, tra elettrici e termici, distribuiti nel territorio e nelle città. Attraverso il contributo di questi impianti, e il calo dei consumi energetici, l’Italia ha ridotto le importazioni dall’estero di fonti fossili, la produzione dagli impianti più inquinanti e dannosi per il Clima (nel termoelettrico -34,2% dal 2005) e si è ridotto anche il costo dell’energia elettrica. Per chiudere sfatiamo un altro mito, ovvero che le rinnovabili le paghiamo care in bolletta. Gli incentivi alle rinnovabili pesano per lo 0,3% nel bilancio di una famiglia media italiana. Per fare un esempio, la spesa per il riscaldamento “pesa” il 5,2%. Oltretutto, questa voce può essere ridotta in maniera realmente significativa fino a quasi azzerarla come nelle case in Classe A o come prevedono le Direttive Europee. Eppure il dibattito politico e le stesse scelte dei Governi si sono concentrate sull’aumento dallo 0,2 allo 0,3% della prima componente e non sulla possibilità di far risparmiare alle famiglie 1.000-1.500 euro all’anno.
6 – IL SI AL REFERENDUM FAREBBE PERDERE CIRCA 11 MILA POSTI DI LAVORO DIRETTI E 21 MILA DI INDOTTO – FALSO
Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare (dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum. Il ministro Galletti fa riferimento alla cifra di 10mila posti di lavoro in meno e la Filctem Cgili sostiene che i lavoratori che rimarrebbero a casa sono 10 mila solo a Ravenna e in Sicilia. Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol – Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Elemento quest’ultimo molto importante. Infatti chi paventa la perdita di posti di lavoro per colpa del referendum non dice che il settore dell’estrazione di gas e petrolio è già in crisi nel mondo e in Italia da diversi anni, indipendentemente dal referendum. A dimostrarlo i rapporti del settore degli ultimi anni a livello nazionale e internazionale o il tavolo di crisi aperto presso la regione Emilia Romagna, già prima dell’istituzione del referendum . Ad esempio secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere a causa del crollo del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato complessivamente di 150 miliardi di dollari. Nessuno si preoccupa infine di dire che l’unico modo per garantire un futuro occupazionale duraturo a queste persone è quello di investire in innovazione industriale e in una nuova politica energetica. Negli ultimi decenni si è avuta una consistente diminuzione della produzione da piattaforme in mare senza alcuna strategicità energetica, economica ed occupazionale. Al contrario il settore delle rinnovabili e dell’efficienza potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro. 100mila al 2030 nel solo settore delle energie rinnovabili – cioè circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia – mentre, al contrario, nel 2015 se ne sono persi circa 4 mila nel solo settore dell’eolico, 10mila in tutto il settore. Infine è bene ricordare che il referendum serve per abrogare una norma che è stata introdotta dal governo il 1 gennaio di quest’anno con l’ultima Legge di Stabilità. Fino al 31 dicembre 2015 le concessioni avevano durata massima di 30 anni, con un vincolo temporale come qualsiasi altra forma contrattuale. Questo è quanto il Referendum del 17 Aprile intende ripristinare e per questa ragione risulta incomprensibile che una vittoria del SI possa causare la perdita anche di un solo posto di lavoro.
7. I SOLDI DEGLI IDROCARBURI VANNO IN SVILUPPO, RICERCA E RINNOVABILI – FALSO
Per promuovere e far sviluppare il settore delle rinnovabili nel nostro Paese servono politiche concrete che puntino su queste, al contrario di quanto fatto fino ad ora. Infatti lo sviluppo delle rinnovabili è stato bloccato da tutti gli ultimi Governi e in particolare da quello in carica (LEGGI IL DOCUMENTO). Ci sono diversi esempi, primo tra tutti la Basilicata, che dimostrano la falsità di questa affermazione ( QUI IL DOSSIER SUL PETROLIO IN VAL D’AGRI) e di come non ci siano grandi esempi di investimenti nel settore industriale, nell’innovazione e nelle fonti rinnovabili nei territori maggiormente coinvolti dalle attività petrolifere. Ma è bene chiarire anche un altro dato. Oggi il settore dell’estrazione di petrolio e gas in Italia riceve sussidi diretti e indiretti dallo Stato che ammontano a circa 2,1 miliardi di euro all’anno, godendo di diversi privilegi che non sono dati ad altri comparti industriali nel nostro Paese (esenzioni, agevolazioni fiscali, royalties molto vantaggiose). come testimonia il DOSSIER STOP SUSSIDI ALLE FONTI FOSSILI. Senza contare che la normativa italiana prevede per il petrolio che le prime 20mila tonnellate estratte in terraferma e le prime 50mila tonnellate estratte in mare siano esenti dal pagamento di aliquote. Delle 26 concessioni che sono state produttive nel 2015 oggetto del referendum solo 9 pagano le royalties. Tutte le altre nel 2015 hanno estratto un quantitativo minore della franchigia, beneficiando quindi dell’esenzione del pagamento delle royalties stesse.